Dimentica il mio nome di Zerocalcare
Avete presente quando l’anima vi brucia e il disagio incombe per tutta la sfera cognitiva, ma alla fine ve la cavate insultando voi stessi o rileggendo le invenzioni vostre scritte sui post-it in giro per casa? Zerocalcare (pseudonimo nato da una pubblicità di un prodotto anti-calcare), giovane fumettista romano (ci tiene a sottolineare di Rebibbia), è un talento perché rappresenta proprio questo, l’insieme dei fatti esclusi da ogni idea di letteratura. In ogni suo fumetto disegna per lo più se stesso, esilino e con grosse sopracciglia, e il suo amico Armadillo, la cui stazza è incombente tanto quanto il suo cinismo (che poi è saggezza). Così è anche nel libro Dimentica il mio nome (Bao edizioni, pp.240, €18,00), uscito nell’ottobre 2014, alla terza ristampa. La novità è che qui i personaggi sono tanti: la mamma, la nonna, il padre, l’amico Secco, mostri da combattere e volpi da salvare. Che sia un romanzo autobiografico? Un po’ lo è, ma la creatività supera il dovere di raccontare la realtà. Alla morte della nonna materna, Zerocalcare ha bisogno di ricostruire il suo passato e lo fa vivendo piccoli e grandi momenti, che è facile riconoscere poiché il libro è diviso per brevi aneddoti, ognuno di essi titolati: Ogni maledetto lunedì, Saluti, Tempismo, Fare cose, Accumulazione, Poligoni e via dicendo… Le vignette lo mostrano bambino, adolescente e ragazzo. Di essere adulti proprio non se parla. Armadillo è sempre con lui, così come il grande orso peluche “rassicuratore”. La madre è la montagna. La nonna è l’eroina che nessuna si aspettava. Il punto è: perché tanta confusione in questa famiglia apparentemente anonima? Ci sono degli enormi buchi da colmare: dov’è il nonno? Perché è scomparso? E la zia? Al funerale compare una volpe “roscia”, quello che succede dopo fa sbrogliare i tanti nodi. Quante analogie? Il Dante di Rebibbia attraverso un dialetto romano carico di slang giovanili, si fa amare per la sua innocenza nel buttare, apparentemente a caso, parole e avvenimenti, in funzione di svelare la fragilità di una generazione (quell’andante sui trenta e clamorosamente sui trenta) che non sa dove andare, come comportarsi, come reagire. La generazione della confusione, questa, rispecchiata in linguaggi e stili di vita precisi. Si cerca di definirsi in questi, per cercare sicurezze. Si pensi alle mille etichette che la mente malsana costruisce nel relazionarsi con gli altri. I nostri “apericena” sono come l’ora di educazione fisica alle scuole medie: momento a volte imbarazzante tanto quanto da ragazzino si hanno scarpe da ginnastica diverse da tutti i nostri coetanei. Le generazioni che ci precedono, quelle chiuse e che sempre giudichiamo, mostravano una certa apertura al riguardo tant’è che nonno, nonna e madre del protagonista viaggiando per il mondo, stretti al loro amore e alle loro identità di persone gonfie di esperienze, neanche hanno un nome fisso. Il monte, la madre, con il suo passato, assume un’aspetto diverso, diventa un’immagine dalle mille angolazioni. Anche riguardo alla nonna tutto diventa più chiaro, persino le visite allo zoo, ogni maledetto lunedì. E che si fa? Partono le recriminazioni, le nostalgie, i rimorsi: “di quello che non sei riuscito a dire, di chi non sei riuscito a capire“. Ma poi si capisce: “A forza di acqua e vento, a forza di erosione, impari anche tu a percepirti in modo diverso, a pensare di poter essere non solo un abitante della vallata… ma onda dopo onda… errore dopo errore… pure il monte di qualcun’altro (AHO’ POI QUELLI SO’ PASSAGGI GRADUALI. NON È CHE UNO CRESCE TUTTO IN UNA BOTTA.) Segue un dialogo tra personaggi esterni: — Mi dispiace ma qui non è edificabile. ‘Sta montagna è fracica, rischia di franare da un momento all’altro — . — Chi è che l’aveva detto, che se l’affitto era così basso, sicuro c’era la sòla? — Ecco, momenti catartici corredati da espressioni appartenenti alla logica e al pensiero quotidiani: questo è la poesia del risveglio, dell’eureka col sorriso. Bando alle parole, la grafica è altrettanto esplicita: tratti marcati, bianchi e neri; personaggi che non vogliono essere belli, e non hanno sembianze umane (a parte il padre, Zerocalcare e Secco). La bellezza e l’armonia non sono proprio contemplate in tanta imperfezione da spiegare.